sabato 2 gennaio 2010

CORONE DI GLORIA

Coloro che vendemmiano ed arano hanno un proverbio bellissimo. Dicono: “ Val più un vecchio in un canto che un giovane in un campo “. Dicono un giovane, non un uomo fatto. Il giovane ha la forza ma non la prudenza, il raziocinio, la calma, lo anti vedere, il confronto con il passato, cioè la saggezza; l’ uomo che è nel colmo della sua vita ha sempre la sua forza ed ha già la saggezza o per lo meno ne riconosce il grande valore e ne ha il desiderio e il rispetto. Il giovane spesso ride del consiglio dei vecchi, non gli dà peso, non sta nemmeno a sentire; l’ uomo adulto invece ascolta attento. Fa tesoro. Qualche volta dice sorridendo: sì, babbo, sì nonno; e poi fa un po’ a modo suo, ma con discernimento e discrezione. Egli distingue nelle
parole del vecchio ciò che è dovuto alla vera, immutabile, eterna prudenza, e quello che è dovuto alla tremula età.
Il vecchio nella casa dei buoni semplici e perfetti ignoranti è il libro di testo, la bibbia, il codice, il ricettario e l’ enciclopedia, è il pulpito, il tribunale e la cattedra. Le sue massime, i suoi proverbi vengono trasmessi di generazione in generazione, fanno parte dell’ asse familiare.
Il mio nonno diceva così.
Non è molto che io udii, mentre in un campo di grano i mietitori procedevano in una frenesia di sole e di cicale, qualcuno dire ad un giovane contadino, sposo di fresco, che era rimasto un poco addietro: - Il mi’ nonno diceva: “ Quando canta la cica, attento al fiasco e lascia star l’ amica “. E tutti risero e poi fecero a gara nelle citazioni, mentre il fresco sposo sosteneva molto bene la sua parte rimbeccando con faunesca disinvoltura.
Di questi insegnamenti saporosi, succosi e nutritivi, se ne possono udire ad ogni momento nei campi soleggiati e nelle tiepide stalle e intorno ai fuochi delle veglie invernali. E’ la voce dei vecchi, la fievole voce dei vecchi ancora vivi, o quella più alta, come rinforzata dal cavo mistero della morte, di coloro che non sono più, che si fa udire continuamente, che rinasce dai solchi e fruttifica come il chicco del grano per il pane della mente e dell’ anima.
L’ uomo che studia ha il professore e la biblioteca, l’ uomo che lavora ha per guida il prete ed il vecchio, due presbiti cioè, che vedono lontano, nel passato e nel futuro.
Il vecchi semplice ed ignaro di studi ha avuto il tempo di fare lo studio più necessario e fruttifero, che è quello di controllare alla prova dei fatti la verità delle parole eterne, sia di quelle scritte naturalmente nella coscienza come di quelle trasmesse dalla saggezza dei secoli o rivelate dalla fede, e si è fatto le sue personali convinzioni, le sue certezze, e le comunica per aforismi. Ha trovato il suo punto di appoggio, l’ “ ubi consistam “; e vuol farne partecipi gli altri. Lo studioso invece, parlo del profano, è difficile che trovi, anche se vecchio, tale consistenza e una simile pace. Egli ha sempre per scopo la ricerca e per movente il dubbio. Da una cima raggiunta vede un’ altra cima da raggiungere e vuole arrivarci, di lassù scorge
un’ altra cima che gli rimaneva nascosta e non ha pace se non ha scalato anche quella, e allora eccone un’ altra più lontana, più alta; oppure da una caverna dov’ è entrato scorge un foro d’ accesso ad un’ altra caverna e vi entra, e vi si aggira per un pezzo a tastoni alla luce oscillante di fiochi lumi finche scopre il passaggio ad un’ altra caverna, e così via, via, di caverna in caverna, di tenebre in tenebre, di abisso in abisso, senza riposo mai, senza fondo, senza fine….
Il vecchio, parlo del vecchio incolto e perfetto ignorante, intuisce prima dell’ altro che il desiderio è cosa difettiva, anche quello del sapere, e limita più presto i suoi desideri. Egli accetta la sua responsabilità pensosa e non sta a indagare più in la, chi ordina e perché, ma riconosce l’ ordine. Ed ha più presto e più chiaro il senso del limite, diventa, come il cipresso, custode del confine: “ tutor finium “. Dice: - Il nostro finisce qui, lì e là: questo è il nostro campo: lavoriamolo in pace e di buona voglia, e poi ci riposeremo a un bel fresco. E insegna come e quando si fa il lavoro necessario, e come si conserva la roba e la salute e la riputazione e la grazia di Dio.
Quando vedo un vecchio contadino o un vecchio operaio seduto alla sua tavola con una bella corona di figli e di nipoti, io penso alle parole dell’ Ecclesiaste: “ Và, mangia il tuo pane allegramente e bevi il tuo vino di cuore lieto mentre Iddio gradisce la tua opera “.
Il bambino coi suoi occhi pieni di aurora porta nella famiglia la freschezza e la gioia, la speranza luminosa del mattino; il buon vecchio vi diffonde la pace serena di un bel tramonto,
la tenue luce diffusa crepuscolare che ammorza e fonde i colori e ammorbidisce i contorni di tutte le cose. E stanco del lungo cammino, il buon vecchio, e dice volentieri e spesso: fermiamoci un poco, basta. Basta con le questioni con le animosità, con i ripicchi, basta con le maldicenze e le invidie, basta coi desideri smodati, con le curiosità che non approdano a nulla, basta coi sogni che non si avverano mai… Lo chiamano brontolone ma egli non si offende e continua, e intanto le sue parole penetrano, e un giorno saranno ricordate e benedette. La sua tranquillità, la sua posatezza, la sua misura, derivano dal fatto che egli è riuscito a trovare, dopo tante dure prove, l’ accordo con la sua coscienza la quale, essendo di natura eterna, non conosce fretta, e perciò egli vuole insegnare agli altri, vuole aiutare gli altri a trovare, a conseguire la stessa tranquillità, la stessa posatezza, la stessa misura. Ed è perciò, ed a questo fine,armonizzatore.
E’ lui che meglio di ogni altro sa impiegare le attitudini e dirigere le forze spesso contrastanti della famiglia verso un fine ed un bene comune. Lui che non ha studiato libri, ma che dal disordine altrui apprese la bellezza dell’ ordine, e dall’ altrui follia “ ha apparato saviezza “, vuole che anche la sua famiglia si ordinata e savia.
Più il corpo invecchia e s’ intossica, più l’ anima si libera e si purifica di tutte le crudezze e gli “ umori peccanti “. L a salute morale è in rapporto inverso con l’ affralimento delle membra. Io amo molto ed ammiro gli spiriti che sono giunti ad affrancarsi dal dispotismo della carne inferma, specialmente se vi sono riusciti, col solo sussidio delle forze naturali. Come preferisco le boscaglie incolte al ravviato parco e al pettinato giardino, così preferisco questi canuti e adusti filosofi e profeti dei campi e delle strade.
Ascoltando la loro voce, mi pare di udire una voce della natura, come il mormorio di una fonte alpestre e lo stormire di una vecchia quercia o il ronzio di un bugno d’ api: ciò mi riposa, mi culla, mi fa dolcemente sognare. Io sto bene in loro compagnia. Sono buoni, sereni, pazienti, educati naturalmente. Hanno il cauto rispetto della gerarchia ed un attento riguardo delle suscettibilità altrui. Conoscono per intuizione e praticano il galateo, la parte migliore del galateo, quella che somiglia molto al vangelo e che consiste nella cura e garbatezza dello spirito. Si studiano di non urtare. Hanno attenzioni e delicatezze di sentimento incredibili. Rispettano, come amano di essere rispettati.
Ricordo, a proposito di questo, un fatto. Una volta, da giovinetto, ero entrato con alcuni compagni in una casa dov’ era avvenuta di fresco una lite. Si andava per curiosare, com’ è proprio di quell’ età. In un canto della prima stanza un vecchio era seduto sopra una seggiola, e, appoggiato alla sua mazza, piangeva. Era stato dipendente della mia famiglia e mi aveva portato in collo da bambino, mi aveva raccontato molte novelle e gli volevo bene, come lui a me. Non avevo veduto ancora un vecchio piangere, e mi fece male; mi avvicinai e gli chiesi: - Sandro, perché piangete? - Mi prese una mano e la portò alle labbra, ve la tenne un po’ mentre le sue lacrime raddoppiavano cadendovi sopra fitte e calde, poi, chiamatomi per nome con un diminutivo affettuoso come quando mi chiamava da bambino, disse scuotendo la testa: - Mi hanno levato il rispetto! … non sono più nulla! …
Il rispetto! Vale a dire l’ ultima soddisfazione, l’ ultima ricchezza, l’ ultima ragione di vivere di un vecchio!
Io non ho mai scordato e non potrò mai scordarmi né quelle lacrime né quelle parole. Quella famiglia andò in rovina, ed anche questo non ho mai dimenticato.
Qualcuno ha detto che per giudicare e condannare un vecchio bisogna aspettare di essere vecchi a nostra volta. Allora il giudicando sarà passato molto probabilmente a miglior vita, e la nostra sentenza sarà doppiamente indulgente. A rigore ogni età non può giudicare con piena cognizione e coscienza altro che sé stessa e le età precedenti, specie le più prossime: così un ragazzo giudica meglio che un giovane di un bambino, e un giovane giudica meglio un ragazzo che un adulto, e così di seguito. Ora un vecchio, non avendo altre età dopo di sé che l’ eternità, può giudicare di tutte le altre, - e con quanta indulgenza interiore formula i suoi giudizi e le sue sentenze, - ma non può essere giudicato con piena coscienza che da un altro vecchio o dall’ Eterno. Il vecchio è sempre degno di rispetto, anche se ha fatto il possibile per non meritarlo. In quest’ ultimo caso la sua debilità inferma ed implorante, la massa imponente dei dolori accumulati nei lunghi anni, - ogni suo capello bianco è un dolore patito, - la prossimità certa della morte, ispirano sempre non so che trepida commozione di pietà e persuadono al perdono quegli stessi che più ebbero a soffrire per causa sua. Ma il vecchio buono ispira simpatia, venerazione, amore. Liberato dalle scorie più impure della impura vita, egli sembra pronto a rivestire la candida stola.
Ci sarebbe da scrivere un libro molto istruttivo e molto dilettevole sull’ arte d’ invecchiare. Credere che quest’ arte sia facile ed alla portata di tutti è una pericolosa illusione dalla quale hanno origine molti giudizi errati e molti atti inconsulti. Invecchiare bene è cosa oltremodo ardua. Quest’ ultimo capitolo riassuntivo del libro della vita è il più difficile a comporsi.
Ho notato che nelle classi più umili, e non intendo soltanto umiltà di condizione e di fortuna, ma di spirito e di sapere, si pratica quest’ arte con maggiore perizia e con maggiore successo che nelle classi così dette elevate. Anche qui, sono i buoni e perfetti ignoranti che possono insegnare molte cose utili ai loro dotti fratelli. Prima di tutto essi avvertono più chiaramente l’ ora del tempo e la non dolce stagione. Quell’ ora si chiama coprifuoco, e quella stagione inverno. E’ proprio dell’ ora di passare e di avvertire, col suono, del suo passaggio, ed è proprio delle stagioni di avvicendarsi.
Essi accettano quell’ avvertimento e questa vicenda. Intuiscono, meravigliosamente, che sarebbe ridicolo non accettare. Intuiscono, più meravigliosamente ancora, quale peso, quale valore, quale immensa portata abbia per la propria e più per l’ altrui vita, quella loro penosa ed umile accettazione. Accettano senza troppi sospiri tediosi i loro nuovi doveri, negativi in gran parte, ingrati doveri di rinunzia ogni giorno crescente, e praticano senza risentimenti, senza animosità, senza invidie, - cose più difficili ancora, - i nuovi doveri positivi che sono anche diritti della loro età: le sorveglianze, il controllo, l’ ammonimento tempestivo, ripetuto, tedioso …
Ogni stato ed ogni condizione hanno la loro particolare dignità. Anche la forza è una dignità, e nelle famiglie del popolo un vecchio sano che abbia ancora il pugno robusto è molto ammirato e rispettato: quella salute e quella forza sono per lo più segni tangibili di una vita non dissipata, degna perciò d’ imitazione e di onore. Ma la dignità che più conta è sempre la dignità morale. Questa nasce soprattutto dall’ accordo fra i fatti e le parole, possibilmente fra queste e i fatti passati, e, necessari mante. fra fatti e parole presenti e per così dire concomitanti. E’ da questa coerenza e coesione di vita che ha origine la vera dignità capace di agire sugli altri con la forza e la suggestione continuata ed invincibile dell’ esempio. Ogni rango ha la sua particolare dignità, e il vecchio che più per tempo ha saputo imporsela, ed ha saputo attenervisi e la osserva come una consegna malgrado le infinite suasioni contrarie della vita e del dolore, è la fortuna della sua famiglia e di quanti l’ avvicinano perché ne accresce la ricchezza che più conta, la ricchezza morale.
Vi furono e vi sono nel mondo, lontane e vicine, accanto a noi, sotto i nostri occhi, e non le vediamo, molte di queste vite senza Plutarco, ma non meno degne di storia. Umili, oscure, nascoste, spesso eroiche, talora silenziosamente tragiche vite di cui nulla sappiamo, di cui nulla sapremo, ma che agiscono nella loro sfera, e da questa in altre sfere, come lieviti attivi, potenti, che si ricongiungono ad altri lieviti venuti da altre parti ed operano in tutta la massa, impediscono la corruzione e il disfacimento della vita, conservano e perpetuano tutto ciò che fa veramente bella e grande la vita: l’ onestà, la bontà, l’abnegazione, la fede nel sacrificio …
Io non so se Colui che fu preposto agli spazzini di Cheronea ebbe mai in mente di scrivere la vita di qualcuno dei Suoi umili e utili sottoposti, ma se Egli avesse ciò fatto e nel modo che Egli sapeva, è certo che quella vita sarebbe riuscita degno coronamento della mirabile opera Sua.
Chi non ha conosciuto qualcuno di questi eroi e martiri della dura, estenuante, implacabile vita quotidiana? Io so di certi che nelle loro estreme giornate si rimisero e dei lavori penosi, ripresero il duro mestiere, si ricaricarono sulle curve spalle la loro croce di piombo per aiutare la famiglia a salire il suo calvario; e ne ho visti di quelli che per il medesimo fine si privarono di molte soddisfazioni, di onesti svaghi, rinunziarono a piccole superfluità ormai per loro necessarie … Ricorderò sempre un vecchio bracciante il quale, per poter contentare un suo nipotino avuto sul tardi, per potergli comprare qualche chicco o qualche balocco, un bel giorno gettò via in mia presenza la sua pipa e non fumò più. Cosa questa che farà sorridere qualcuno; ma io mi rivolgo ai vecchi fumatori e domando loro se non sia invece da far pensare.
Se dite ad un giovane che il sacrificio non è mai sterile, egli non vi comprenderà, non può comprendervi, è come se gli parlaste una lingua sconosciuta. Il vecchio vi comprenderà perfettamente. Egli ha potuto constatare e sperimentare che il sacrificio è sempre fecondo, e che il più duro, il più aspro, il più torturante e maledetto è il più fecondo, perché se anche non gli ha procurato nessun benefizio tangibile, materiale, ha purificato, fortificato, arricchito l’ anima sua e la sua coscienza. Come una stessa luce riflessa in più specchi, ho potuto cogliere questa verità diversamente espressa ma sempre la stessa, sulla bocca di molti vecchi.
Il giovane è più corpo che anima, più senso che spirito, e soffre di questo suo squilibrio, e si azzuffa e battaglia continuamente con sé e con gli altri; nell’ adulto l’ anima e il corpo cominciano a fare delle tregue, poi trovano dei compromessi, degli adattamenti, e da ultimo si compongono in una specie di equilibrio sufficiente ai fini della vita operosa e militante. Nel vecchio è l’ anima che ha preso il predominio, che tiene il corpo in soggezione, e nello stesso tempo si sviluppa ogni giorno più da lui, si distingue, si distacca, finchè tutta si scioglie e vola libera e lieve.
Ora, è un fatto che coloro che riescono a districarsi prima e meglio dai lacci e dalle ritorte della carne, e a mondarsi dalle scorie della impura vita, sono gli umili, i buoni, i perfetti ignoranti. Sono essi che accettano con più composta, edificante ed estetica rassegnazione l’ ultimo sacrificio: vivere morti alla vita.
E’ per questo che nelle campagne, più che nelle città dove il mezzo sapere è diffuso nell’ aria e si respira con la polvere delle strade, non è raro incontrare dei vecchi pieni di dignità e di così naturale distinzione che fa uno strano contrasto col loro ambiente e desta la più grata delle meraviglie. Alcuni si direbbero dei patriarchi, altri risvegliano l’ idea di qualche antico senatore romano, altri somigliano curiosamente a dei vecchi autentici nobili che avessero indossate per capriccio rozze vesti.
Ho notato che le famiglie di agricoltori che dipendono da molto tempo, talora da secoli, da qualche antica casata, hanno finito per assumere qualcosa dei modi di vita e di pensiero dei loro padroni, come se il riflesso di quella luce di nobiltà che gl’ investe di continuo avesse penetrato le loro anime. In generale sono diverse dalle altre, meno rudi, meno sospettose, più educate, e la gratitudine, questo raro fiore dell’ anima, non vi è ignoto. E’ commovente vedere con quale amore prendono parte alle loro gioie e ai loro dolori.
Fu in una di queste famiglie che io conobbi appunto uno di quei vecchi di cui ho parlato. Conoscevo anche il suo vecchio padrone, un conte nobilissimo, e l’ uno mi parlava dell’ altro con vero affetto e con sincera ammirazione. Li vedevo spesso insieme per i campi, qualche volta mi accompagnai con loro, e parlavano di raccolti, discutevano di nuovi impianti e di migliorie, e si chiedevano e si davano consigli a vicenda come fra uguali. La scienza dell’ uno si valeva dell’ esperienza dell’ altro, poiché il conte, oltre ad essere uomo di vasta e raffinata cultura letteraria, era molto versato nelle discipline agrarie, e il vecchio colono accettava qualunque innovazione senza le cocciute prevenzioni della sua classe e della sua età, ma limitandosi a suggerire giudiziosi adattamenti e ragionate modificazioni pratiche alla generalità della teoria. Animati da una stima e da un affetto vicendevoli, essi collaboravano serenamente al fine di una sempre maggiore produzione per il bene reciproco delle loro famiglie e per la comune prosperità.
Di questa concordia di sentimenti, in una collaborazione di interessi senza ostilità, io ebbi la prova un giorno in uno spettacolo di squisita e commovente gentilezza.
Si era sposata l’ unica figlia del conte, una soave fanciulla ventenne, e dopo la cerimonia religiosa avvenuta nella cappella gentilizia della villa, fu servito un pranzo ai parenti ed amici degli sposi, mentre un altro pranzo aveva luogo in un’ altra sala dato ai capoccia delle famiglie dipendenti e al personale di fattoria. Al momento dei vini spumanti e del caffè, il conte volle che tutti i convitati si riunissero in questa ultima sala, e fu bello vedere con quanta cordiale e simpatica allegria le due classi si confusero. Gli sposi furono festeggiatissimi, e i nuovi arrivati, signori e signore, presero posto a capriccio qua e là alla grande tavola fra i rudi lavoratori. Furono fatti dei brindisi di brio da una parte e dall’ altra e un contadino poeta improvvisò un’ ottava di un freschissimo sapore polizianesco. Il conte si era seduto presso il suo vecchio amico. Si somigliavano un poco, stranamente. Erano due bei vecchi tutti e due, con grossi baffi bianchi e capelli candidi, e parevano due fratelli dei quali uno fosse stato molto al sole e l’ altro all’ ombra, scolpito questo nell’ avorio e quello nel bronzo e meravigliosamente patinati ed armonizzati dal tempo. Io pensavo guardandoli, che tutta quella gioia era in gran parte opera loro. Erano appunto i giorni in cui un vento di follia traversava le campagne sconvolgendo le menti e turbando molti semplici cuori; ma intorno a loro tutti erano rimasti immuni dall’ insidioso e vergognoso contagio. La forza della benevolenza e l’ esempio delle loro due vite diversamente laboriose ed ugualmente integre avevano compiuto il miracolo. E mi ricordavo di una frase udita dal vecchio contadino, giorni avanti, in un crocchio di accesi fautori dell’ idea nuova: - Ragazzi, date retta a uno che ha i capelli bianchi: state in regola con l’ anima, perché in questo mondo ci siamo a minuti! -
Caro e buon vecchio!
Sul finire della lieta riunione, improvvisamente si udì il suono festoso di una banda salire dal piazzale della villa. Stupito, il conte si voltò verso le finestre, poi battendo una mano sulle spalle del vecchio capoccia e girando uno sguardo sugli altri esclamò: - Birboni! … senza dirmi nulla, eh! – e si alzò.
Tutti risero e si alzarono sparpagliandosi chi alle finestre, chi sulla grande terrazza, e chi giù per le scale. Era stata un’ improvvisata dei contadini.
Giù nel piazzale c’ era un brusio di gente che acclamava gli sposi. Questi si affacciarono a ringraziare, poi scesero giù nel grande atrio dove un grazioso gruppo di contadinelle presentò alla padroncina un mazzo di fiori ed una lettera, e da ultimo uscirono sul piazzale mescolandosi fra la folla acclamante, stringendo molte mani, salutando molti per nome, accarezzando i piccoli e distribuendo dolci.
Era una dimostrazione di affetto di una spontaneità commovente, e la bella coppia passava fra acclamazioni e sorrisi e benedizioni, e lacrime anche, e ingenue parole di ammirazione, lei con la sua grazia semplice e il suo sorriso buono, simile ad un’ apparizione di fiaba e di sogno, lui, un valoroso ufficiale, con un bel viso dolce ed intrepido pieno di virile nobiltà.
Era visibile in tutti una sincera commozione, e negli occhi di tutti splendeva come una luce di felicità condivisa e partecipe che era come un omaggio di riconoscenza, d’ augurio e d’ amore. Poi la bella coppia rientrò nelle villa; e la festa continuò nel piazzale e nel parco, animata e lieta, allegra e composta, fra suoni e balli e copiosi rinfreschi serviti dalle signore e dai signori invitati che si divertivano un mondo a far da favoleggiati e da coppieri.
E verso il tramonto una grande automobile poderosa e lucente venne a fermarsi davanti al portone della villa. Gli sposi erano pronti e vi salirono. Ma subito fu un grande accorrere di gente da tutte le parti e in un attimo la folla si accalcò intorno alla bella macchina fremente tenendola prigioniera. Tutti volevano vedere ancora, gridare un saluto, una benedizione, sorridere l’ ultimo augurio del cuore a quella bellezza felice. E quando infine la macchina impaziente potè svincolarsi dalla tenace stretta e prendere la sua libera corsa per l’ ampio viale alberato, fu tutto un evviva fragoroso, concorde, un grido solo, alto, unanime, come un’ invocazione propiziatrice al nuovo destino di quelle due giovani vite.
E allora io vidi una cosa bella. Presso ad un albero stava il vecchi conte, solo. Pallido trasognato, con occhi smarriti e velati di lacrime guardava laggiù nel viale allontanarsi il mostro veloce che gli portava via, lontana, per sempre, la sua dolce unica figlia, il sorriso della sua casa, la luce dell’ anima sua, la gioia del suo stanco cuore .
Il vecchio contadino, il capoccia prediletto, era un poco discosto da lui e lo guardava. Vide quel dolore, egli che aveva provato più volte quella sottile angoscia dei padri, e si avvicinò al suo padrone, gli disse parole di conforto. E il conte posò una mano sulla spalla di lui, sulla spalla del suo vecchio rude amico, come per sostenersi, e con l’ altra si coprì gli occhi, e chinò la fronte. E per un momento quelle due bianche teste si toccarono, quelle due aureole di canizie confusero i loro candori come due corone di gloria.
E a me parve come se in quel momento si unissero gli estremi di un cerchio ideale dov’ era conclusa tutta la vita e la speranza di un popolo.

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