domenica 5 settembre 2010

LA SORELLA DELL' ECO

Ho mostrato nel precedente capitolo e anche abbastanza dimostrato,mi pare,il danno e la vergogna prodotti dal piccolo mezzo ignorante,figlio di più crassi dotti ammezzati,figli alla loro volta di più grossi filosofi inconsapevoli della propria ignoranza. E di questa inconsapevolezza funesta che noi abbiamo già troppo sofferto e soffriamo e avremo ancora da soffrire,e assai. E’ questo ibrido prodotto di una civiltà che si crede illuminata,questo ridicolo impasto di una pseudoscienza e di una grottesca presunzione,che io voglio combattere con ogni possa e contribuire secondo le mie forze ad eliminare. Questi signori che credono di portare alti nelle loro mani dei soli non portano che delle torce fumose le quali non lasciano vedere i fossi e i precipizi che si aprono ai lati della strada e nemmeno la strada. Ciò somiglia molto ad un funerale macabro,ed è a questi necrofori che io muovo guerra. E non vogliate credere che io pretenda di fare da lampadoforo,no,io mi contento di strappare da quelle mani le torce fumose e spezzarle sulle teste dure dei portatori:verranno dopo di me coloro che porteranno alte nelle loro mani lampade solari. Il mio compito è di sgombrare intanto la strada dalla marmaglia,di essere un umile,coscienzioso spazzino.
Per far questo,bisogna che io sposi l’ignoranza.
Come un giorno il Santo serafico,stanco di avventure di vita,impalmò la perfetta Povertà,così io,nauseato di avventure di scienza,voglio sposare la perfetta ignoranza.
Bella di tutte le belle,come ti sogno e ti desidero ormai!
Io t’immagino come una meravigliosa fanciulla pura ed ignara;tu sei più candida del cigno e dell’oca;i tuoi occhi sono azzurri di vacua profondità e scintille di stelle vi brillano come in cielo;i tuoi capelli sono raggi attorti di sole,e dalla tua bocca di rosa non escono che profumate ingenuità simili a gorgheggi di scherzevole eco. Poiché veramente sorella dell’eco tu sei,divina,indifesa fanciulla,figlia di Colei che io vidi danzare un giorno fra cielo e terra,cinta di nebbie azzurrine,la danza dei settemila veli.
Vieni,ti ho preparato un letto di fiori nella mia “Torre delle cinque finestre”. Che cosa importa a me di complicati ragionamenti e di astrusi pensieri. Io voglio guarire di questa turbata perplessità,di questo male indefinibile del sapere inutile,di questa melanconia “fatta dell’essenza di troppe cose”. Io voglio una bellezza ingenua composta di semplicità,e nulla è più bello e più schietto di te. Oh,anima semplicetta che sai nulla,fiore sbocciato al mattino,vivido e puro,olezzante e rorido,come ti adoro! Nella fresca sorgente delle origini io voglio rituffarmi con te per mondare la mia mente da ogni bruttura e ritrovare il senso obliato delle prime indubitabili certezze. Molte fonti ha intorbidate la incomposta curiosità,e invano ora l’affannoso sapere degli uomini s’adopra a chiarirle;solo questa,la tua,è rimasta trasparente come il puro cristallo e lascia vedere il suo fondo. Lascia che in essa io mi purifichi e mi disseti.
Con me nella limpida onda,o seduta nel fresco antro,tu ripeterai le parole che io ti dirò e che sempre mi parranno nuove,incantevolmente nuove sulla tua bocca,dolce sorella dell’eco.

mercoledì 10 marzo 2010

ALLEGRO MA NON TROPPO

(Curiosità storica – 1922)

Vieni qua,corifeo,capo dei ballerini vieni qua.
Il caffè è deserto e l’ora è propizia per i confidenziali colloqui a quattr’occhi. Si sta molto bene in quest’angoletto vicino alla vetrata da dove si può vedere di tra le foglie dei bambù passare le belle ragazze nella strada. Hanno annaffiato e spazzato da poco e c’è un frescolino che fa piacere;la padrona pisola seduta al suo banco,il gattone angora pisola accanto a lei,e il cameriere seduto laggiù in fondo sogna di essere diventato il proprietario di un “bar” tutto specchi e bottiglie verdi rosse e gialle e con un globo di luce nel mezzo,accecante come il sole dell’avvenire. Mi rincresce proprio di doverlo svegliare,ma si consolerà vedendoti qui e gli parrà ancora un poco di sognare dolcemente. Ti offro una birra;accetti? Va bene. La teutonica cervogia è la madre delle idee che ti hanno abbeverato per tanto tempo e delle quali a tua volta abbeverasti tanti buoni pippioni,e perciò ti piace. Lo sapevo io preferisco il divino vino latino color sangue e color dell’oro:le due più grandi sincerità.
Dunque senti. Questo è il tuo campo di battaglia,non è vero? Vedo su questo marmo dei piani strategici disegnati col lapis,e riconosco il tuo carattere da questi due versi che non tornano:sono abbastanza sporchi,è vero,ma non tornano,sono dei versi a piede libero,come te. C’è anche una donnina in costume evitico,con dei seni più voluminosi del suo podice,che è tutto dire,e anche questa deve essere opera tua:c’è la marca di fabbrica,evidentissima. Tu sai fare molte cose,non c’è che dire,tu sei molto versatile,anzi,i tuoi ammiratori dicono che tu sai far tutto. Male,aggiungo io;e converrai che esagerano un pochino. Ora dimmi.—tanto qui nessuno ci sente;--di quali frottole,di quali panzane,di quali dense,sconosciute pastocchie hai tu inghebbiato quei poveri barbagianni che ti stanno a sentire la sera intorno a questo tavolino,così rimminchioniti che si dimenticano perfino di riaccendere le pipe spente? Che cosa non avranno bevuto e non bevono e trangugiano propinato e servito da te? Se stasera, per esempio,arrivando qui tu dicessi loro che a cena hai mangiato un arrosto di arabe fenici,essi ti crederebbero sulla parola. Ne hanno ingollate ben altre senza batter ciglio.
Ah,ecco la birra. Bravo Pippo,salute a Pippo dai piè dolci;e ora torna pure a dormire e sogna il nonno morto che ti da i numeri:c’è più sugo,credimi,che a sognare il sole di là a venire.
Dunque dicevo … Ah,si,ne hanno ingollate ben altre,come quando davi loro ad intendere che Iddio è uno spauracchio inventato dai preti,che la famiglia è un’ubbia,che la patria è dove si sta bene,che la povertà è un furto,che si può fare benissimo senza la moneta,--questa poi è la tua principale fissazione,--e che le donne devono essere a comune,--e anche questa è un’altra grande fissazione,e la venere steatopigia ha sempre una parte preponderante nelle tue rosee palingenesi,--e che tutti siamo eguali,e che non ci devono essere ne capi ne code … Proprio come nei tuoi discorsi. Non scuotere la testa,corifeo:ti ho sentito con questi orecchi. – Spesso “io ti seguia”,e in questo caffè e altrove,non con prave intenzioni,intendiamoci bene,ma per puro e semplice amore dell’arte. Ah,come mi sono spassato! Una sera,--tu eri in vena di storia—mi ricordo che raccontavi il fattaccio di Lorenzino de’ Medici,e dopo aver “succhiellinato” con entusiasmo per far vedere al vivo la cosa ed aver fatto un’allegra confusione fra Scoroncolo e Maramaldo,tu concludesti che in premio del magnifico gesto fu dato a Lorenzino il titolo di Lorenzo il Magnifico. Ah,come tremava nella tua voce il desiderio della bellezza antica. Ti ho sentito anche parlare della “Grande Rivoluzione” nella quale ti dicevi molto versato,ed eri veramente tanto versato che non ti era rimasto nel boccino del capo altro che qualche nome dei più truci,e qualche giornata delle più truculente,e qualche motto dei più bestiali,confondendo tempi e persone. In compenso facevi su questo tavolino grandi disegni di barricate e di lampioni,con precisi ed amorosi dettagli. Ma dove mi divertivo di più era quando tu parlavi di banche e di borse,di cambi,di aggi ed aggiotaggi che per te erano la stessa cosa,ed esponevi le tue vedute e le tue teorie originali,ilari,impensate. Con quale perspicuità d’idee,con quale geniale disinvoltura tu risolvevi le affannose questioni dei commerci e degli scambi e delle distribuzioni che affaticano le menti dei finanzieri e degli economisti tardigradi! Ah,tu eri grande allora,ed io mi meravigliavo molto che il piano di sopra non ci rovinasse sulla testa al succedersi di tante e si formidabili esplosioni della tua genialità. E nessun dubbio in te,nessuna ombra di dubbio,mai. Tu procedevi per certezze,assiomatico,dommatico,tu che disprezzi e deridi ogni dogma. E Dio ne liberi a muoverti la più timida e rispettosa obiezione. Tu che sei l’obiettatore tipo,l’obiettatore nato,prendevi fuoco subito,ti accendevi di santa indignazione come per una insolenza immeritata e villana. Tu fai di mestiere l’aggiustatore,mi hanno detto,ma nessuno ha saputo dirmi di che. Cosa diavolo ti aggiusti,corifeo? Qui ci vorrebbe un romano de Roma per terminare a dovere la domanda,ma io non sono romano,e ti dico che tu potrai essere benissimo aggiustatore di tutto quello che vuoi,ma una cosa certo non aggiusti davvero ed è il cervello dei tuoi simili. Come ti ho già detto io ti seguivo spesso anche fuori di qui,fuori di questo caffè. Tu esercitavi su di me non so quale attrazione irresistibile,ipnotica,simile a quella che esercitano su di noi certe inesplicabili mostruosità. Ti ho seguito specialmente nelle grandi giornate quando tu eri più corifeo del solito,quando uscivi di casa col tuo mantice sotto il braccio per soffiare nel fuoco e riscaldare la massa fino al calore bianco. Altri corifei più grossi di te erano venuti di fuori nella nostra cara città accogliente,di quei corifei che empivano allora le gazzette dei loro nomi e sproloqui,e uno dopo l’altro dalle compiacenti finestre municipali si mettevano gagliardamente a soffiare coi loro più grossi mantici e sparare le loro bombarde caricate a paroloni che facevano tremare i vetri e gli entragni borghesi. E soffia,e spara,e attizza,finalmente il calore necessario voluto era raggiunto,e la massa fusa incandescente,sprizzante bagliori e fragorosa di esplosioni sinistre,si riversava in rossi vortici per le vie cittadine come una lava. Com’eri felice,allora,corifeo! Com’eri giulivo e rosso di sudata gioia e di smisurato affaccendamento! Come ti espandevi e quanto daffare ti davi,di qua e di là,distribuendo coccarde,legando rossi nastri ai bracci,su,giù,a scrivere,a impartire ordini,spedire staffette,a destra,a sinistra,al telefono,al telegrafo …
Com’eri elastico,rimbalzante,come saltellavi,come piroettavi,come svolazzavi … Mi facevi quasi un po pena,sai,da tanto che eri felice,come fanno sempre pena le persone troppo visibilmente e smisuratamente felici. Io pensavo con malinconia all’”extremum gaudii” dell’antica saggezza.
Sì,fu proprio in uno di quei giorni che tu m’entrasti in casa,in casa mia,con un branco dei tuoi ballerini vociferanti. Io,vedi,rifuggo dal citare i miei casi personali,molto,molto rifuggo,ma quello fu così eccezionale,che permetterai anche a me di fare una piccola eccezione. In fondo non è che un piccolo sfogo che la mia sopportazione d’allora autorizza a giustificare. Vi sfogaste tanto,voialtri,in quei giorni radiosi.
Ah,l’oscena ridda nella mia casa violata! Il bimbo che trema e piange fra le mie braccia e gli altri che si stringono con tutte le loro forze ai miei ginocchi invocando la mia protezione,e le donne che gridano pazze di terrore intorno a me,abbracciate a me,vedendo la gente irrompere urlando nella stanza dalla porta forzata … E di fuori altri ceffi urlanti,bercianti,sinistri,che fanno ressa per entrare,traboccano,irrompono anche loro,visi pallidi d’ira e lividi d’odio,visi rossi,accesi,sudati di furore,scalmanata marmaglia male odorante che strepita e si rimescola eccitandosi con alti clamori e vociferazioni minacciose,saettando attorno con occhi invidi,agitando in alto mani adunche,pronte alla rapina. Domando con chi devo trattare,chi è il capo. Mi si presentano insieme una mezza dozzina di figuri facendo a sopraffarsi,uno cercando di escludere l’altro a colpi di gomito nello stomaco,e tutti gridano il loro titolo gerarchico con esibizione di strani documenti sporchi,rincincignati,illeggibili. Le loro fiatate di vino,di zozza e di cicche masticate mi mozzano il respiro. Uno mi dice,press’a poco,che è “il segretario della rivoluzione esecutiva”. Insisto per parlare col capo vero,autentico,riconosciuto da tutti,parendomi cosa impossibile,contro natura,che non ci sia. Ma non si trova. Allora penso fra me a quella bestia favolosa che aveva la testa nei piedi. Finalmente apparisti tu,mio caro corifeo,che eri rimasto prudentemente nella strada sopra un camion della spedizione. Mi conoscevi un poco,e mi dicesti che eri venuto a tutelare i diritti imprescrittibili di non so chi. I miei non certo. Nel tuo volto era non so che rigida gravità imponente di ubriaco severo,e mi parve che le gambe non ti reggessero troppo bene. Forse eri un po’ ebbro di dominazione. Dovetti subire un tuo interrogatorio,poi,ad un tuo ordine la porta di strada fu chiusa e cominciammo il giro della mia casa seguiti dalla razzumaglia rimasta dentro. Tutto fu aperto,rovistato,frugato,scrutato dalla cantina alle soffitte. Ah,quanti rospi dovetti ingollare quel giorno! Finalmente ti persuadesti che non ero un accaparratore di derrate né un affamatore del popolo e ti contentasti di prendermi una botte di vino,l’unica che mi era rimasta,e che fra le vostre mani diventò aceto,e mi requisisti per le vostre spedizioni un cavallo che mi tornò rovinato e un barroccino che fu reso inservibile. Intanto,mentre il giro della casa stava per finire,si udurono a un tratto degli spari e si videro delle colonne di fumo alzarsi da una casa colonica non lontana. Era un contadino che tirava delle fucilate da una finestra della sua casa in fiamme su qualche masnada di requisitori,uno che aveva preso sul serio quella coserella da nulla che si chiama la proprietà,ed esercitava stupidamente il suo diritto,--prescrittibilissimo,secondo te,--d’ “incolpata tutela”. Tu diventasti pallido,poi livido,--si santo sdegno,naturalmente,--e sforzandoti di gridare “a noi! “ con quel poco di fiato che ti rimaneva,ti precipitasti fuori di casa mia seguito dai tuoi fidi.—Addio senza ritorno!—ti dissi dietro. E tu corresti la dove il dovere ti chiamava,a dar manforte,a incorare,spingendo i tuoi all’assalto,intrepidamente,dando ordini,ritto,impavido,dietro un grosso muro.
Ti vedevo,sai,bene mio!
Intanto dalla casa in fiamme neri globi di fumo si alzavano che il vento spargeva sulla campagna livida e senza sole. Io pensavo,senza qualche apprensione,che forse quello era il principio della fine;ma poi,guardando te,considerando bene te,mi venne fatto di riflettere che poteva anche essere la fine del principio.
Seppi poi che un assalitore era stato ferito da un colpo di vanga nella testa e un altro da una fucilata e che vi erano altri feriti e contusi più leggeri,ma che tu eri rimasto perfettamente incolume. Che sollievo,per me!
La sera, in una piazza inverosimilmente gremita,tu parlasti come un trionfatore,e c’ero anch’io. Tu cominciasti così:”Compagni,io sono oggi contento di voi e per voi. In questo fausto giorno noi abbiamo trovato venticinque quintali di cacio,ottanta prosciutti,centoquarantacinque salami,venti bariglioni di tonno,trecento barili di vino… “—Oh,gli applausi! E continuasti così un bel pezzo ad elencare il vario e prezioso bottino conquistato in campagna e in città. Pareva di udire un proclama napoleonico dopo una grande battaglia. Oh,il delirio degli applausi! E poi ti portarono in trionfo,ti alzarono sulle braccia perché tutti potessero vederti e goderti,e osannavano al tuo nome. E dopo ricominciarono le grida di abbasso e di morte ad altri indirizzi,e nuovi tumulti,e sfondamenti di porte e invasioni di botteghe e di magazzini.
Ti confesso,e Iddio mi perdoni,che in quel giorno io pensai più volte con morbosa simpatia a Claudio Cesare Nerone. Con uno solo,--mi dicevo,--si può anche reggere;ma che mondo,con delle miriadi di piccoli neroncini avidi e sporchi tuoi pari! Come te la scialavi e gavazzavi,quanto cacio piovve sui maccheroni in quei giorni radiosi! Tu pensavi che la cuccagna era ormai assicurata,almeno per te e per gli altri compagnoni corifei,e già vedevi nell’accesa fantasia lauti simposi,seriche alcove,lussuose delizie,orge,voluttà,sangue nemico… Eri proprio per toccare il cielo con un dito,ti mancava un’unghia,un nulla…. E tutto ad un tratto,che è che non è…
Che capitombolo,corifeo mio!
Cos’era successo?
Te lo dico subito. Quando la misura è colma,Iddio manda sempre un uomo,e quest’Uomo venne meno te l’aspettavi,di dove meno te l’aspettavi,e ti levò di sotto la male salita scala. Ora sei per le terre e ancora tutto ti duoli della caduta precipite. Non ti raccapezzi,invero,come sia andata? Mi raccapezzo io,e ti spiego. La tua personalità morale comincia dallo stomaco in giù,”in lumbis est”;la personalità di quell’Uomo comincia dallo stomaco in su,è nel cevello,è nel cuore,e perciò ti ha vinto. Non è adulazione la mia,è semplice riconoscimento e riconoscenza pura. Che cosa poteva fare di più e di meglio per me che salvare tutti coloro e tutto ciò che piùamo?
Ti vuoi rialzare da terra,corifeo? C’è una maniera molto semplice. Liberati da quella mezza dozzina d’idee sbagliate che hai nella testa,ritorna il buono e perfetto ignorante che eri una volta,prima che gl’importatori e rappresentanti di gallico e teutonico fumo sulle piazze italiche ti avessero annebbiato il cervello,e sii puramente e semplicemente quello che sei e devi essere,con naturalezza,né più né meno. Non ti gonfiare,non esagerare le tue dimensioni:non sai che l’enfiatura delle gote del superbo gli chiude gli occhi e non gli permette più di vedere chiaro? La tua belle e serena ignoranza riacquistata ti spianerà le gote e ti permetterà nuovamente di veder bene e t’insegnerà di nuovo tante cose belle e buone,dimenticate. Potrai anche continuare a fare il corifeo,se ti piace,il buon corifeo s’intende,e sarà facilissimo. Basterà che tu metta la patria dove mettevi la classe,il dovere dove mettevi il diritto imprescrittibile,l’amore al posto dell’odio…
Tu ridi,corifeo?I nostri cari vicini d’oltralpe dicono che quando si ride si è disarmati.
Ebbene,salta il fosso. Io ti dirò una cosa che ancora non avevo detta a nessuno. Quel giorno che mi entrasti in casa senza permesso,vedendo il bambino che avevo in collo piangere di paura,tu gli carezzasti la piccola gota molle di lacrime. Per quella carezza ti ho perdonato molte cose. Guarda,io ti tendo la mano per aiutarti a saltare. Vuoi?
Cosa dici?... Cosa hai detto? Ah,che sono cose da pensarci? E sta bene,pensaci pure,sei nel tuo diritto,ma allora voglio dirti un’ultima cosa. Se vieni da questa parte noi tesseremo insieme la bianca tovaglia per il banchetto dove i nostri figli,fatti uomini,potranno assidersi riconciliati;rimanendo dalla tua parte,voi non potete tessere che un sudario.
Un’ultima parola ancora,e poi ho finito davvero. O tu rimanga di là,o tu venga di qua,ricordati sempre la parola dell’oracolo famoso: “Ne quid nimis”. Sai che vuol dire? Lo traduco per te,alla libera;vuol dire:Allegro, ma non troppo.
Pippo dai piè dolci,portaci due bicchieri di vino,uno rosso e uno oro:i colori delle due grandi sincerità.

sabato 2 gennaio 2010

CORONE DI GLORIA

Coloro che vendemmiano ed arano hanno un proverbio bellissimo. Dicono: “ Val più un vecchio in un canto che un giovane in un campo “. Dicono un giovane, non un uomo fatto. Il giovane ha la forza ma non la prudenza, il raziocinio, la calma, lo anti vedere, il confronto con il passato, cioè la saggezza; l’ uomo che è nel colmo della sua vita ha sempre la sua forza ed ha già la saggezza o per lo meno ne riconosce il grande valore e ne ha il desiderio e il rispetto. Il giovane spesso ride del consiglio dei vecchi, non gli dà peso, non sta nemmeno a sentire; l’ uomo adulto invece ascolta attento. Fa tesoro. Qualche volta dice sorridendo: sì, babbo, sì nonno; e poi fa un po’ a modo suo, ma con discernimento e discrezione. Egli distingue nelle
parole del vecchio ciò che è dovuto alla vera, immutabile, eterna prudenza, e quello che è dovuto alla tremula età.
Il vecchio nella casa dei buoni semplici e perfetti ignoranti è il libro di testo, la bibbia, il codice, il ricettario e l’ enciclopedia, è il pulpito, il tribunale e la cattedra. Le sue massime, i suoi proverbi vengono trasmessi di generazione in generazione, fanno parte dell’ asse familiare.
Il mio nonno diceva così.
Non è molto che io udii, mentre in un campo di grano i mietitori procedevano in una frenesia di sole e di cicale, qualcuno dire ad un giovane contadino, sposo di fresco, che era rimasto un poco addietro: - Il mi’ nonno diceva: “ Quando canta la cica, attento al fiasco e lascia star l’ amica “. E tutti risero e poi fecero a gara nelle citazioni, mentre il fresco sposo sosteneva molto bene la sua parte rimbeccando con faunesca disinvoltura.
Di questi insegnamenti saporosi, succosi e nutritivi, se ne possono udire ad ogni momento nei campi soleggiati e nelle tiepide stalle e intorno ai fuochi delle veglie invernali. E’ la voce dei vecchi, la fievole voce dei vecchi ancora vivi, o quella più alta, come rinforzata dal cavo mistero della morte, di coloro che non sono più, che si fa udire continuamente, che rinasce dai solchi e fruttifica come il chicco del grano per il pane della mente e dell’ anima.
L’ uomo che studia ha il professore e la biblioteca, l’ uomo che lavora ha per guida il prete ed il vecchio, due presbiti cioè, che vedono lontano, nel passato e nel futuro.
Il vecchi semplice ed ignaro di studi ha avuto il tempo di fare lo studio più necessario e fruttifero, che è quello di controllare alla prova dei fatti la verità delle parole eterne, sia di quelle scritte naturalmente nella coscienza come di quelle trasmesse dalla saggezza dei secoli o rivelate dalla fede, e si è fatto le sue personali convinzioni, le sue certezze, e le comunica per aforismi. Ha trovato il suo punto di appoggio, l’ “ ubi consistam “; e vuol farne partecipi gli altri. Lo studioso invece, parlo del profano, è difficile che trovi, anche se vecchio, tale consistenza e una simile pace. Egli ha sempre per scopo la ricerca e per movente il dubbio. Da una cima raggiunta vede un’ altra cima da raggiungere e vuole arrivarci, di lassù scorge
un’ altra cima che gli rimaneva nascosta e non ha pace se non ha scalato anche quella, e allora eccone un’ altra più lontana, più alta; oppure da una caverna dov’ è entrato scorge un foro d’ accesso ad un’ altra caverna e vi entra, e vi si aggira per un pezzo a tastoni alla luce oscillante di fiochi lumi finche scopre il passaggio ad un’ altra caverna, e così via, via, di caverna in caverna, di tenebre in tenebre, di abisso in abisso, senza riposo mai, senza fondo, senza fine….
Il vecchio, parlo del vecchio incolto e perfetto ignorante, intuisce prima dell’ altro che il desiderio è cosa difettiva, anche quello del sapere, e limita più presto i suoi desideri. Egli accetta la sua responsabilità pensosa e non sta a indagare più in la, chi ordina e perché, ma riconosce l’ ordine. Ed ha più presto e più chiaro il senso del limite, diventa, come il cipresso, custode del confine: “ tutor finium “. Dice: - Il nostro finisce qui, lì e là: questo è il nostro campo: lavoriamolo in pace e di buona voglia, e poi ci riposeremo a un bel fresco. E insegna come e quando si fa il lavoro necessario, e come si conserva la roba e la salute e la riputazione e la grazia di Dio.
Quando vedo un vecchio contadino o un vecchio operaio seduto alla sua tavola con una bella corona di figli e di nipoti, io penso alle parole dell’ Ecclesiaste: “ Và, mangia il tuo pane allegramente e bevi il tuo vino di cuore lieto mentre Iddio gradisce la tua opera “.
Il bambino coi suoi occhi pieni di aurora porta nella famiglia la freschezza e la gioia, la speranza luminosa del mattino; il buon vecchio vi diffonde la pace serena di un bel tramonto,
la tenue luce diffusa crepuscolare che ammorza e fonde i colori e ammorbidisce i contorni di tutte le cose. E stanco del lungo cammino, il buon vecchio, e dice volentieri e spesso: fermiamoci un poco, basta. Basta con le questioni con le animosità, con i ripicchi, basta con le maldicenze e le invidie, basta coi desideri smodati, con le curiosità che non approdano a nulla, basta coi sogni che non si avverano mai… Lo chiamano brontolone ma egli non si offende e continua, e intanto le sue parole penetrano, e un giorno saranno ricordate e benedette. La sua tranquillità, la sua posatezza, la sua misura, derivano dal fatto che egli è riuscito a trovare, dopo tante dure prove, l’ accordo con la sua coscienza la quale, essendo di natura eterna, non conosce fretta, e perciò egli vuole insegnare agli altri, vuole aiutare gli altri a trovare, a conseguire la stessa tranquillità, la stessa posatezza, la stessa misura. Ed è perciò, ed a questo fine,armonizzatore.
E’ lui che meglio di ogni altro sa impiegare le attitudini e dirigere le forze spesso contrastanti della famiglia verso un fine ed un bene comune. Lui che non ha studiato libri, ma che dal disordine altrui apprese la bellezza dell’ ordine, e dall’ altrui follia “ ha apparato saviezza “, vuole che anche la sua famiglia si ordinata e savia.
Più il corpo invecchia e s’ intossica, più l’ anima si libera e si purifica di tutte le crudezze e gli “ umori peccanti “. L a salute morale è in rapporto inverso con l’ affralimento delle membra. Io amo molto ed ammiro gli spiriti che sono giunti ad affrancarsi dal dispotismo della carne inferma, specialmente se vi sono riusciti, col solo sussidio delle forze naturali. Come preferisco le boscaglie incolte al ravviato parco e al pettinato giardino, così preferisco questi canuti e adusti filosofi e profeti dei campi e delle strade.
Ascoltando la loro voce, mi pare di udire una voce della natura, come il mormorio di una fonte alpestre e lo stormire di una vecchia quercia o il ronzio di un bugno d’ api: ciò mi riposa, mi culla, mi fa dolcemente sognare. Io sto bene in loro compagnia. Sono buoni, sereni, pazienti, educati naturalmente. Hanno il cauto rispetto della gerarchia ed un attento riguardo delle suscettibilità altrui. Conoscono per intuizione e praticano il galateo, la parte migliore del galateo, quella che somiglia molto al vangelo e che consiste nella cura e garbatezza dello spirito. Si studiano di non urtare. Hanno attenzioni e delicatezze di sentimento incredibili. Rispettano, come amano di essere rispettati.
Ricordo, a proposito di questo, un fatto. Una volta, da giovinetto, ero entrato con alcuni compagni in una casa dov’ era avvenuta di fresco una lite. Si andava per curiosare, com’ è proprio di quell’ età. In un canto della prima stanza un vecchio era seduto sopra una seggiola, e, appoggiato alla sua mazza, piangeva. Era stato dipendente della mia famiglia e mi aveva portato in collo da bambino, mi aveva raccontato molte novelle e gli volevo bene, come lui a me. Non avevo veduto ancora un vecchio piangere, e mi fece male; mi avvicinai e gli chiesi: - Sandro, perché piangete? - Mi prese una mano e la portò alle labbra, ve la tenne un po’ mentre le sue lacrime raddoppiavano cadendovi sopra fitte e calde, poi, chiamatomi per nome con un diminutivo affettuoso come quando mi chiamava da bambino, disse scuotendo la testa: - Mi hanno levato il rispetto! … non sono più nulla! …
Il rispetto! Vale a dire l’ ultima soddisfazione, l’ ultima ricchezza, l’ ultima ragione di vivere di un vecchio!
Io non ho mai scordato e non potrò mai scordarmi né quelle lacrime né quelle parole. Quella famiglia andò in rovina, ed anche questo non ho mai dimenticato.
Qualcuno ha detto che per giudicare e condannare un vecchio bisogna aspettare di essere vecchi a nostra volta. Allora il giudicando sarà passato molto probabilmente a miglior vita, e la nostra sentenza sarà doppiamente indulgente. A rigore ogni età non può giudicare con piena cognizione e coscienza altro che sé stessa e le età precedenti, specie le più prossime: così un ragazzo giudica meglio che un giovane di un bambino, e un giovane giudica meglio un ragazzo che un adulto, e così di seguito. Ora un vecchio, non avendo altre età dopo di sé che l’ eternità, può giudicare di tutte le altre, - e con quanta indulgenza interiore formula i suoi giudizi e le sue sentenze, - ma non può essere giudicato con piena coscienza che da un altro vecchio o dall’ Eterno. Il vecchio è sempre degno di rispetto, anche se ha fatto il possibile per non meritarlo. In quest’ ultimo caso la sua debilità inferma ed implorante, la massa imponente dei dolori accumulati nei lunghi anni, - ogni suo capello bianco è un dolore patito, - la prossimità certa della morte, ispirano sempre non so che trepida commozione di pietà e persuadono al perdono quegli stessi che più ebbero a soffrire per causa sua. Ma il vecchio buono ispira simpatia, venerazione, amore. Liberato dalle scorie più impure della impura vita, egli sembra pronto a rivestire la candida stola.
Ci sarebbe da scrivere un libro molto istruttivo e molto dilettevole sull’ arte d’ invecchiare. Credere che quest’ arte sia facile ed alla portata di tutti è una pericolosa illusione dalla quale hanno origine molti giudizi errati e molti atti inconsulti. Invecchiare bene è cosa oltremodo ardua. Quest’ ultimo capitolo riassuntivo del libro della vita è il più difficile a comporsi.
Ho notato che nelle classi più umili, e non intendo soltanto umiltà di condizione e di fortuna, ma di spirito e di sapere, si pratica quest’ arte con maggiore perizia e con maggiore successo che nelle classi così dette elevate. Anche qui, sono i buoni e perfetti ignoranti che possono insegnare molte cose utili ai loro dotti fratelli. Prima di tutto essi avvertono più chiaramente l’ ora del tempo e la non dolce stagione. Quell’ ora si chiama coprifuoco, e quella stagione inverno. E’ proprio dell’ ora di passare e di avvertire, col suono, del suo passaggio, ed è proprio delle stagioni di avvicendarsi.
Essi accettano quell’ avvertimento e questa vicenda. Intuiscono, meravigliosamente, che sarebbe ridicolo non accettare. Intuiscono, più meravigliosamente ancora, quale peso, quale valore, quale immensa portata abbia per la propria e più per l’ altrui vita, quella loro penosa ed umile accettazione. Accettano senza troppi sospiri tediosi i loro nuovi doveri, negativi in gran parte, ingrati doveri di rinunzia ogni giorno crescente, e praticano senza risentimenti, senza animosità, senza invidie, - cose più difficili ancora, - i nuovi doveri positivi che sono anche diritti della loro età: le sorveglianze, il controllo, l’ ammonimento tempestivo, ripetuto, tedioso …
Ogni stato ed ogni condizione hanno la loro particolare dignità. Anche la forza è una dignità, e nelle famiglie del popolo un vecchio sano che abbia ancora il pugno robusto è molto ammirato e rispettato: quella salute e quella forza sono per lo più segni tangibili di una vita non dissipata, degna perciò d’ imitazione e di onore. Ma la dignità che più conta è sempre la dignità morale. Questa nasce soprattutto dall’ accordo fra i fatti e le parole, possibilmente fra queste e i fatti passati, e, necessari mante. fra fatti e parole presenti e per così dire concomitanti. E’ da questa coerenza e coesione di vita che ha origine la vera dignità capace di agire sugli altri con la forza e la suggestione continuata ed invincibile dell’ esempio. Ogni rango ha la sua particolare dignità, e il vecchio che più per tempo ha saputo imporsela, ed ha saputo attenervisi e la osserva come una consegna malgrado le infinite suasioni contrarie della vita e del dolore, è la fortuna della sua famiglia e di quanti l’ avvicinano perché ne accresce la ricchezza che più conta, la ricchezza morale.
Vi furono e vi sono nel mondo, lontane e vicine, accanto a noi, sotto i nostri occhi, e non le vediamo, molte di queste vite senza Plutarco, ma non meno degne di storia. Umili, oscure, nascoste, spesso eroiche, talora silenziosamente tragiche vite di cui nulla sappiamo, di cui nulla sapremo, ma che agiscono nella loro sfera, e da questa in altre sfere, come lieviti attivi, potenti, che si ricongiungono ad altri lieviti venuti da altre parti ed operano in tutta la massa, impediscono la corruzione e il disfacimento della vita, conservano e perpetuano tutto ciò che fa veramente bella e grande la vita: l’ onestà, la bontà, l’abnegazione, la fede nel sacrificio …
Io non so se Colui che fu preposto agli spazzini di Cheronea ebbe mai in mente di scrivere la vita di qualcuno dei Suoi umili e utili sottoposti, ma se Egli avesse ciò fatto e nel modo che Egli sapeva, è certo che quella vita sarebbe riuscita degno coronamento della mirabile opera Sua.
Chi non ha conosciuto qualcuno di questi eroi e martiri della dura, estenuante, implacabile vita quotidiana? Io so di certi che nelle loro estreme giornate si rimisero e dei lavori penosi, ripresero il duro mestiere, si ricaricarono sulle curve spalle la loro croce di piombo per aiutare la famiglia a salire il suo calvario; e ne ho visti di quelli che per il medesimo fine si privarono di molte soddisfazioni, di onesti svaghi, rinunziarono a piccole superfluità ormai per loro necessarie … Ricorderò sempre un vecchio bracciante il quale, per poter contentare un suo nipotino avuto sul tardi, per potergli comprare qualche chicco o qualche balocco, un bel giorno gettò via in mia presenza la sua pipa e non fumò più. Cosa questa che farà sorridere qualcuno; ma io mi rivolgo ai vecchi fumatori e domando loro se non sia invece da far pensare.
Se dite ad un giovane che il sacrificio non è mai sterile, egli non vi comprenderà, non può comprendervi, è come se gli parlaste una lingua sconosciuta. Il vecchio vi comprenderà perfettamente. Egli ha potuto constatare e sperimentare che il sacrificio è sempre fecondo, e che il più duro, il più aspro, il più torturante e maledetto è il più fecondo, perché se anche non gli ha procurato nessun benefizio tangibile, materiale, ha purificato, fortificato, arricchito l’ anima sua e la sua coscienza. Come una stessa luce riflessa in più specchi, ho potuto cogliere questa verità diversamente espressa ma sempre la stessa, sulla bocca di molti vecchi.
Il giovane è più corpo che anima, più senso che spirito, e soffre di questo suo squilibrio, e si azzuffa e battaglia continuamente con sé e con gli altri; nell’ adulto l’ anima e il corpo cominciano a fare delle tregue, poi trovano dei compromessi, degli adattamenti, e da ultimo si compongono in una specie di equilibrio sufficiente ai fini della vita operosa e militante. Nel vecchio è l’ anima che ha preso il predominio, che tiene il corpo in soggezione, e nello stesso tempo si sviluppa ogni giorno più da lui, si distingue, si distacca, finchè tutta si scioglie e vola libera e lieve.
Ora, è un fatto che coloro che riescono a districarsi prima e meglio dai lacci e dalle ritorte della carne, e a mondarsi dalle scorie della impura vita, sono gli umili, i buoni, i perfetti ignoranti. Sono essi che accettano con più composta, edificante ed estetica rassegnazione l’ ultimo sacrificio: vivere morti alla vita.
E’ per questo che nelle campagne, più che nelle città dove il mezzo sapere è diffuso nell’ aria e si respira con la polvere delle strade, non è raro incontrare dei vecchi pieni di dignità e di così naturale distinzione che fa uno strano contrasto col loro ambiente e desta la più grata delle meraviglie. Alcuni si direbbero dei patriarchi, altri risvegliano l’ idea di qualche antico senatore romano, altri somigliano curiosamente a dei vecchi autentici nobili che avessero indossate per capriccio rozze vesti.
Ho notato che le famiglie di agricoltori che dipendono da molto tempo, talora da secoli, da qualche antica casata, hanno finito per assumere qualcosa dei modi di vita e di pensiero dei loro padroni, come se il riflesso di quella luce di nobiltà che gl’ investe di continuo avesse penetrato le loro anime. In generale sono diverse dalle altre, meno rudi, meno sospettose, più educate, e la gratitudine, questo raro fiore dell’ anima, non vi è ignoto. E’ commovente vedere con quale amore prendono parte alle loro gioie e ai loro dolori.
Fu in una di queste famiglie che io conobbi appunto uno di quei vecchi di cui ho parlato. Conoscevo anche il suo vecchio padrone, un conte nobilissimo, e l’ uno mi parlava dell’ altro con vero affetto e con sincera ammirazione. Li vedevo spesso insieme per i campi, qualche volta mi accompagnai con loro, e parlavano di raccolti, discutevano di nuovi impianti e di migliorie, e si chiedevano e si davano consigli a vicenda come fra uguali. La scienza dell’ uno si valeva dell’ esperienza dell’ altro, poiché il conte, oltre ad essere uomo di vasta e raffinata cultura letteraria, era molto versato nelle discipline agrarie, e il vecchio colono accettava qualunque innovazione senza le cocciute prevenzioni della sua classe e della sua età, ma limitandosi a suggerire giudiziosi adattamenti e ragionate modificazioni pratiche alla generalità della teoria. Animati da una stima e da un affetto vicendevoli, essi collaboravano serenamente al fine di una sempre maggiore produzione per il bene reciproco delle loro famiglie e per la comune prosperità.
Di questa concordia di sentimenti, in una collaborazione di interessi senza ostilità, io ebbi la prova un giorno in uno spettacolo di squisita e commovente gentilezza.
Si era sposata l’ unica figlia del conte, una soave fanciulla ventenne, e dopo la cerimonia religiosa avvenuta nella cappella gentilizia della villa, fu servito un pranzo ai parenti ed amici degli sposi, mentre un altro pranzo aveva luogo in un’ altra sala dato ai capoccia delle famiglie dipendenti e al personale di fattoria. Al momento dei vini spumanti e del caffè, il conte volle che tutti i convitati si riunissero in questa ultima sala, e fu bello vedere con quanta cordiale e simpatica allegria le due classi si confusero. Gli sposi furono festeggiatissimi, e i nuovi arrivati, signori e signore, presero posto a capriccio qua e là alla grande tavola fra i rudi lavoratori. Furono fatti dei brindisi di brio da una parte e dall’ altra e un contadino poeta improvvisò un’ ottava di un freschissimo sapore polizianesco. Il conte si era seduto presso il suo vecchio amico. Si somigliavano un poco, stranamente. Erano due bei vecchi tutti e due, con grossi baffi bianchi e capelli candidi, e parevano due fratelli dei quali uno fosse stato molto al sole e l’ altro all’ ombra, scolpito questo nell’ avorio e quello nel bronzo e meravigliosamente patinati ed armonizzati dal tempo. Io pensavo guardandoli, che tutta quella gioia era in gran parte opera loro. Erano appunto i giorni in cui un vento di follia traversava le campagne sconvolgendo le menti e turbando molti semplici cuori; ma intorno a loro tutti erano rimasti immuni dall’ insidioso e vergognoso contagio. La forza della benevolenza e l’ esempio delle loro due vite diversamente laboriose ed ugualmente integre avevano compiuto il miracolo. E mi ricordavo di una frase udita dal vecchio contadino, giorni avanti, in un crocchio di accesi fautori dell’ idea nuova: - Ragazzi, date retta a uno che ha i capelli bianchi: state in regola con l’ anima, perché in questo mondo ci siamo a minuti! -
Caro e buon vecchio!
Sul finire della lieta riunione, improvvisamente si udì il suono festoso di una banda salire dal piazzale della villa. Stupito, il conte si voltò verso le finestre, poi battendo una mano sulle spalle del vecchio capoccia e girando uno sguardo sugli altri esclamò: - Birboni! … senza dirmi nulla, eh! – e si alzò.
Tutti risero e si alzarono sparpagliandosi chi alle finestre, chi sulla grande terrazza, e chi giù per le scale. Era stata un’ improvvisata dei contadini.
Giù nel piazzale c’ era un brusio di gente che acclamava gli sposi. Questi si affacciarono a ringraziare, poi scesero giù nel grande atrio dove un grazioso gruppo di contadinelle presentò alla padroncina un mazzo di fiori ed una lettera, e da ultimo uscirono sul piazzale mescolandosi fra la folla acclamante, stringendo molte mani, salutando molti per nome, accarezzando i piccoli e distribuendo dolci.
Era una dimostrazione di affetto di una spontaneità commovente, e la bella coppia passava fra acclamazioni e sorrisi e benedizioni, e lacrime anche, e ingenue parole di ammirazione, lei con la sua grazia semplice e il suo sorriso buono, simile ad un’ apparizione di fiaba e di sogno, lui, un valoroso ufficiale, con un bel viso dolce ed intrepido pieno di virile nobiltà.
Era visibile in tutti una sincera commozione, e negli occhi di tutti splendeva come una luce di felicità condivisa e partecipe che era come un omaggio di riconoscenza, d’ augurio e d’ amore. Poi la bella coppia rientrò nelle villa; e la festa continuò nel piazzale e nel parco, animata e lieta, allegra e composta, fra suoni e balli e copiosi rinfreschi serviti dalle signore e dai signori invitati che si divertivano un mondo a far da favoleggiati e da coppieri.
E verso il tramonto una grande automobile poderosa e lucente venne a fermarsi davanti al portone della villa. Gli sposi erano pronti e vi salirono. Ma subito fu un grande accorrere di gente da tutte le parti e in un attimo la folla si accalcò intorno alla bella macchina fremente tenendola prigioniera. Tutti volevano vedere ancora, gridare un saluto, una benedizione, sorridere l’ ultimo augurio del cuore a quella bellezza felice. E quando infine la macchina impaziente potè svincolarsi dalla tenace stretta e prendere la sua libera corsa per l’ ampio viale alberato, fu tutto un evviva fragoroso, concorde, un grido solo, alto, unanime, come un’ invocazione propiziatrice al nuovo destino di quelle due giovani vite.
E allora io vidi una cosa bella. Presso ad un albero stava il vecchi conte, solo. Pallido trasognato, con occhi smarriti e velati di lacrime guardava laggiù nel viale allontanarsi il mostro veloce che gli portava via, lontana, per sempre, la sua dolce unica figlia, il sorriso della sua casa, la luce dell’ anima sua, la gioia del suo stanco cuore .
Il vecchio contadino, il capoccia prediletto, era un poco discosto da lui e lo guardava. Vide quel dolore, egli che aveva provato più volte quella sottile angoscia dei padri, e si avvicinò al suo padrone, gli disse parole di conforto. E il conte posò una mano sulla spalla di lui, sulla spalla del suo vecchio rude amico, come per sostenersi, e con l’ altra si coprì gli occhi, e chinò la fronte. E per un momento quelle due bianche teste si toccarono, quelle due aureole di canizie confusero i loro candori come due corone di gloria.
E a me parve come se in quel momento si unissero gli estremi di un cerchio ideale dov’ era conclusa tutta la vita e la speranza di un popolo.